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Il
sentiero dei nidi di ragno
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno
Calvino scrisse Il sentiero dei nidi di ragno nel 1946, giovane scrittore
alle prime armi, fresco
fresco di Resistenza, portato inaspettatamente al successo da quella che
lui stesso avrebbe definito «l’esplosione letteraria»
del secondo dopoguerra: «prima che un fatto d’arte, un fatto
fisiologico, esistenziale, collettivo», la pulsione irrefrenabile
a dire, a raccontare a illustrare gli anni della lotta silenziosa, della
paura, della morte e anche del disinganno.
Nel Sentiero, troviamo il neorealismo, che non fu una
scuola ma «un insieme di voci periferiche», il modello dei
Malavoglia, seguito, ma nello stesso tempo tenuto a distanza, perché
quel nuovo realismo, sgorgato dalle ferite della storia insieme al sangue
e alle lacrime, doveva essere «il più possibile distante
dal naturalismo». E poi il problema, così peculiarmente italiano,
di scegliere una lingua per parlare a tutti ma senza perdere il ricco
tesoro espressivo dei dialetti; e ancora l’America, sogno lontano,
lontano baluginio di un mondo desiderato e insieme temuto, perché
ancora in gran parte ignoto.
Qualcosa in più, che rende Il sentiero dei nidi
di ragno un romanzo particolare, quasi unico nella tradizione letteraria
italiana. È lo sguardo dal basso: la guerra è raccontata
attraverso lo sguardo trasognato e dispettoso di un bambino, che vede
il mondo con l’asciutta chiarezza di una macchina fotografica, non
per una raggiunta consapevolezza di stile, ma perché non possiede
ancora gli strumenti etici con cui gli adulti distinguono il bene dal
male (scegliendo poi, quasi sempre, la seconda alternativa).
Calvino si è volontariamente scelta una posizione
minore, secondaria, da cui osservare di scorcio i movimenti tumultuosi
e a volte incomprensibili della Storia Grande: lo scrittore dà
voce ad un protagonista che rappresenta, come lui stesso dice, «un’immagine
di regressione». Ma quello che rimane dalla lettura del Sentiero
non è il complesso d’inferiorità del borghese Calvino
dinanzi alla durezza di una scelta storica che non ammette incertezze:
l’infanzia agra e selvaggia di Pin va oltre il valore puramente
metaforico. Nella letteratura italiana la storia non era mai stata filtrata
dallo sguardo spietato ed indifeso di un bambino, ed è qui, piuttosto
che in una vaga simbologia sociale, che troviamo il valore più
profondo del romanzo.
Pin osserva dal suo mondo fiabesco di «bambino
vecchio» le esistenze misteriose e ingarbugliate dei grandi: e a
volte sono gli amplessi animaleschi della sorella, che Pin spia con «occhi
come punte di spillo» dal ripostiglio stretto e scuro che è
la sua camera, a volte sono parole oscure e affascinanti (GAP, troschista,
STEN, SIM) alle quali il bambino attribuisce significati favolosi, a volte
è l’umanità storta e rabberciata del distaccamento
del Dritto. E tutto questo è la Storia, ma Pin non lo sa, non sa
ancora cosa sia la storia, quest’oggetto incomprensibile che nei
suoi sogni di bambino prende la forma di una pistola, una P38 rubata ad
un ufficiale tedesco, uno degli amanti di sua sorella. La pistola diventa
allora l’oggetto magico delle favole, è l’anello che
rende invisibili, è l’Olifante di Orlando, la bacchetta magica
che permette a Pin di entrare nel mondo favoloso dei grandi.
L’unico gioco a contare in questo momento è
la guerra, e anche Pin vuole parteciparvi, con la cieca cocciutaggine
del bimbo che non vuole rimanere da solo nell’angolo del cortile,
che vuole anche lui far parte della banda. Ma è un gioco duro e
difficile, e le regole molto spesso sfuggono a Pin: non capisce i comportamenti
e le reazioni di questi uomini, un po’ delinquenti un po’
clown, che si trovano, riuniti in un bosco come i personaggi di una fiaba
dei Grimm, a recitare il dramma della Storia ognuno a modo suo, senza
che ci sia un regista a dare un senso al tutto. Anche Pin prova a ritagliarsi
un suo ruolo, nel modo che conosce meglio: quello del monello beffardo,
senza vergogna, senza peli sulla lingua, che con i suoi scherzi spazza
via e maschere e le ipocrisie degli adulti.
Ma anche la sua è una maschera, anche Pin ha un
vuoto, un dolore segreto da nascondere. Sotto la scorza di scugnizzo buffo
e vivace, il desiderio profondo è la pace, la purezza, quelle che
la Storia non può né potrà mai dare e che allora
Pin cerca nella natura, lontano dal «contagio del peloso e ambiguo
carnaio del genere umano». È una natura russoviana, libera,
selvatica e incontaminata. Il mondo immobile e incantato del sentiero
dei nidi di ragno, che solo Pin conosce, e che rivelerà solo al
suo grande Amico, quando finalmente lo incontrerà: ma nel frattempo,
il bambino trasporta anche lì il suo bagaglio di sofferenze e crudeltà,
e da vittima dei grandi si trasforma in carnefice delle creature di fossi
e prati. «Chissà che cosa succederebbe a sparare a una rana»,
si domanda, «forse resterebbe solo una bava verde schizzata su qualche
pietra»; e poi infilza i ragni su lunghi stecchi per osservarli
con gelida attenzione, «un piccolo ragno nero, con dei disegnini
grigi come sui vestiti d’estate delle vecchie bigotte»; e
ancora i grilli, con la loro «assurda faccia di cavallo verde»,
li taglia a pezzi per fare «strani mosaici con le zampe su una pietra
liscia». Non è una natura idillica, quella che fa da teatro
alle scorribande di Pin: è una macello, un laboratorio di piccoli
orrori, un teatrino gotico dove Pin mette in scena la lezione imparata
suo malgrado dalla Storia: che esistono, sempre e ovunque, i forti e i
deboli, e sempre e ovunque i forti hanno la meglio. Anche se a volte sembra
volerne dubitare, questa è l’amara saggezza raggiunta nel
corso della sua minuscola vita. Come quando il Dritto gli ordina di seppellire
il falchetto morto di uno dei partigiani: «Verrebbe voglia di buttare
il falchetto nella grande aria della vallata e vederlo aprire le ali,
e alzarsi a volo, fare un giro sulla sua testa e poi partire verso un
punto lontano. E lui, come nei racconti delle fate, andargli dietro, camminando
per monti e per pianure, fino a un paese incantato in cui tutti siano
buoni. Invece Pin depone il falchetto nella fossa e fa franare la terra
sopra, con il calcio della zappa».
Troverà il suo Amico, Pin, e lo troverà
proprio nel mondo dei grandi: Cugino, con il suo mantello scuro e le mani
grandi, che sembrano di pane, le poche parole brusche e il peso di un
grande dolore sulle spalle. Un altro tradito dalla vita, che trova nella
guerra un senso, un’alternativa, uno scopo per vivere. Lui, alla
fine del romanzo, sarà incaricato di uccidere la sorella di Pin
che fa la spia per i tedeschi. Ma Pin non lo capirà, Pin non riesce
a decifrare la Storia nei suoi significati profondi: per il bambino, essa
rimane un geroglifico , un enigma, uno scarabocchio sulla superficie,
come quegli strani mosaici fatti di zampe di grillo, come gli schizzi
verdi di rana spiaccicata su un sasso. Conta solo aver trovato l’Amico,
e solo in ragione di questo umile affetto umano Il Sentiero dei nidi di
ragno può chiudersi con un’immagine di speranza.
«E continuarono a camminare, l’omone e il
bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano.»
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